Scroll Top

La prova del DNA nel processo penale: è decisiva o meno?

dna

La prova del DNA nel processo penale : richiesti nuovi esami per Stasi e Bossetti

Sia nel caso dell’omicidio di Yara Gambirasio, a Brenbate di Sopra, sia in quello dell’assassinio di Chiara Poggi, a Garlasco, le difese si attestano su posizioni altamente critiche, per quanto riguarda il risultato degli esami del DNA, effettuati sui loro assistiti: in questo senso viene da chiedersi se la prova del DNA nel processo penale sia da ritenersi decisiva o meno.

L’avvocato di Alberto Stasi ha riferito che cinque marcatori del DNA estratto dai reperti su Chiara Poggi sono compatibili con quello del suo cliente, ma potrebbero essere di chiunque, non essendoci sufficiente DNA, nel materiale biologico rintracciato sui frammenti delle unghie di Chiara Poggi, per poterlo comparare, con affidabilità scientifica, con quello di Stasi.

Ciò è quanto emerso dall’esame che si è svolto nella sede del Dipartimento di scienza e salute dell’Università di Genova, nell’ambito del processo d’appello-bis.

Le analisi si sono svolte in pieno contraddittorio, ossia in presenza dei consulenti di parte e dei periti dei giudici, con il coordinamento da parte del Dottor. Francesco De Stefano, nominato dalla Corte d’assise d’appello di Milano. E tutto con il consenso dello stesso Stasi.

Ben più complessi, invece, i termini della questione, nel caso di Brembate.

Il problema del DNA nasce il giorno 15 giugno 2011, quando gli investigatori isolano una traccia di DNA maschile sugli slip della ragazza che non sarebbero suscettibili di contaminazione casuale.

Sarebbe il DNA dell’assassino ed è un profilo genetico che non è tra i 2.500 raccolti in quei mesi dagli investigatori.

È così che nasce la cosiddetta ‘pista di Gorno’: viene estratto da una marca da bollo, su una vecchia patente, il DNA di Giuseppe Guerinoni.

L’assassino di Yara è un suo figlio illegittimo. Viene fermato, il 16 giugno 2014, Giuseppe Bossetti, il presunto carnefice della tredicenne.

Bossetti è stato, così, sottoposto alla custodia cautelare in carcere, provvedimento disposto dal gip Vincenza Maccora che, dopo aver rimarcato la sussistenza di gravi indizi, per poter ritenere che sia il muratore di Mapello ad aver lasciato tracce di sangue sugli indumenti della vittima, spiega le ragioni della sua decisione.

Il Giudice sostiene, infatti, che, sulla base dell’orientamento della Corte di Cassazione (ritenuto essere quello prevalente in giurisprudenza), quelle analisi sul DNA hanno il valore di prova: gli esiti di un’indagine genetica, dato l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesima la possibilità di errore, presentano natura di prova e non di mero elemento indiziario. Tanto più che, qualora tale indagine non fornisca risultati assolutamente certi (e non è questo il caso, a detta del gip), ai suoi esiti può darsi valore d’indizi.

Alla base dell’orientamento della Cassazione, sposato dal gip, vi sono due distinte pronunce.

Nella prima, data 2004, la Suprema Corte ha confermato la condanna a quattordici anni e sei mesi di carcere, per un uomo accusato di aver ucciso l’amante della moglie a Valdobbiadene, provincia di Treviso, colpendolo alle spalle con una roncola e, poi, sgozzandolo (gli investigatori hanno trovato, su di uno zerbino, un “mix di sangue” con il profilo genetico dell’omicida e della vittima: la Cassazione ha riconosciuto la natura di prova delle risultanze delle analisi genetiche sul DNA).

Nella seconda, datata 2013, la Corte di legittimità ha confermato la sentenza della Corte d’appello di Bologna nei confronti di un rapinatore che aveva assaltato un portavalori, ribadendo la validità probatoria dell’esame genetico (in tal caso, il DNA è stato rintracciato sull’auto utilizzata, per portare a termine il reato).

Tra l’altro, tale sentenza è stata citata, come riferimento, di recente, in un altro verdetto della Cassazione (del 9 ottobre scorso) che ha confermato l’arresto di un ladro, stabilito dalla Corte di appello di Firenze.

Ciò crea un precedente, sulla cui base si fonda il provvedimento cautelare a carico di Bossetti: al ladro era stato prelevato un campione di DNA a sua insaputa, ossia attraverso i mozziconi di sigaretta che lo stesso aveva fumato durante l’interrogatorio, in caserma.

Anche il muratore di Mapello non era a conoscenza che gli investigatori stessero cercando il suo profilo genetico, quando lo hanno sottoposto a un finto etilometro, qualche giorno fa.

La Cassazione scrive che il prelievo del DNA non è atto invasivo e costrittivo, dunque, non richiede l’osservanza delle garanzie difensive: va, inoltre, ricordato che a carico di Bossetti vi sono anche altri gravi indizi, derivanti dalle analisi delle celle telefoniche, che rinforzano il quadro indiziario.

A tutto ciò, si aggiunga che le verifiche sulle celle telefoniche non sono ancora terminate, come non sono finite le analisi del RIS di Parma, il quale si è recato a casa del presunto assassino a sequestrare dei capi di vestiario e, cogliendo l’occasione, a ricercare qualsiasi traccia di sangue (mediante l’utilizzo del Luminol), che, anche a distanza di quattro anni dal fatto, potrebbe essere ancora trovata.

Al fine di pervenire a tracce organiche rilevanti, comunque, saranno analizzati anche gli attrezzi del mestiere dell’indagato, nonché la sua auto e l’autocarro usualmente utilizzato per il lavoro.

La strategia della difesa è quella di non chiedere più una nuova comparazione tra il DNA ritrovato sugli indumenti della ragazzina e quello di Bossetti, bensì un nuovo esame genetico, visto che gli esiti comparativi di quattro laboratori differenti ne hanno stabilito l’identità. Ciò nasce dalla convinzione, per gli avvocati dell’indagato, che le prove debbano crearsi in contraddittorio.

Sorge spontanea una domanda: e se non fosse possibile un nuovo prelievo? Gli avvocati, non sembrano preoccuparsene più di tanto, in quanto, ove così fosse, ne trarrebbero le dovute conseguenze, in base al Codice penale, adombrando l’eccezione di inutilizzabilità, in dibattimento, della prova del DNA.

È, dunque, sul fronte genetico che si gioca la partita più dura tra accusa e difesa.

L’incertezza dell’esame del DNA

I casi di cronaca più recenti raccontano, quindi, una spaccatura, circa la certezza assoluta che garantirebbe un’eventuale test del DNA sul soggetto ritenuto responsabile del reato.

Se da un lato, infatti, molti, soprattutto coloro che non sono addetti ai lavori, ritengono l’analisi genetica un metodo infallibile, per la risoluzione dei più complicati casi di cronaca, diversi tra gli esperti di criminalità la pensano esattamente nella maniera opposta. Tra questi ultimi, uno dei massimi esponenti è certamente Giancarlo De Cataldo, giudice di Corte d’Assise a Roma e scrittore (è lui l’autore di “Romanzo criminale”): egli parte dalla convinzione per cui quello del DNA sia un mito da sfatare.

Alla scienza si chiedono certezze che non sempre, anzi quasi mai, sono di questo mondo.

E ciò sarebbe spiegato, secondo il giudice, da una sentenza della Cassazione che indicherebbe l’accidentato rapporto tra prova scientifica e giudizio, evidenziandone i punti critici: la mancanza di cultura scientifica dei giudici; gli interessi che di volta in volta soggiacciono alla base delle opinioni degli esperti; le negoziazioni occulte fra i membri della comunità scientifica; la drammaticità e la complessità di esaminare con sguardo neutro alcuni fatti; la provvisorietà e la mutabilità delle opinioni scientifiche; la manipolazione dei dati che si potrebbe verificare in taluni casi.

Nei moderni sistemi, improntati a una sana diffidenza nei confronti della fase investigativa, le modalità di raccolta e di analisi della prova sono importanti quanto la prova stessa. Prima di affermare che quell’impronta genetica appartenga con certezza a Mister X, occorre sapere come sia stata raccolta ed escludere il rischio di contaminazioni accidentali.

Per giunta, l’esito stesso dell’analisi non è, talvolta, esente da critiche (un DNA abbondante e fresco offre maggiori garanzie di uno esiguo e risalente nel tempo).

De Cataldo, riferendosi all’omicidio di Yara Gambirasio, sottolinea come spetti all’accusa dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’impronta genetica è stata rilasciata da Mister X, mentre commetteva il delitto.

E il problema non è di poco conto: basti pensare che anche gli americani, con il loro consueto pragmatismo, da tempo hanno deciso di affrontarla di petto, arrivando a considerare valida una prova scientifica, solo se rispetta determinati requisiti (l’accettazione da parte della comunità scientifica della prova, la possibilità di sottoporre questa a verifiche che inducano risultati difformi da quello originariamente perseguito; l’analisi della percentuale di errore, sul presupposto che non si possa mai parlare di certezza assoluta; l’esistenza di pubblicazioni su riviste di settore autorevoli).

Cosa dice la legge italiana sull’esame genetico come prova in un processo penale?

In tale campo opera la c.d. genetica forense, disciplina che, seppur giovane, conosce già molte applicazioni: per la ricerca di varianti genetiche che influiscano sulla capacità d’intendere e volere dell’imputato; per attribuire un’identità a una persona fisicamente individuata, ma non anagraficamente; per ricostruire rapporti di parentela.

Senza scordare che si intravedono possibili applicazioni future, gravide di implicazioni etiche e giuridiche, come quella di adoperarla come tecnica predittiva di comportamenti umani futuri.

Le risorse della genetica, tuttavia, vengono sfruttate, soprattutto, per risalire da una traccia biologica a chi l’ha lasciata. In questa forma, il procedimento si snoda lungo alcune fasi: incomincia con l’individuazione e la raccolta del reperto (di solito lo si cerca sul luogo del delitto o sul corpo della vittima, ma non è escluso che si mostri utile del materiale trovato altrove); dalla traccia viene, quindi, estratto il profilo del DNA, ossia una sequenza alfa numerica da questo ricavata e caratterizzante ogni singolo individuo (secondo quanto previsto dall’art. 6, lett. b) della legge n. 85 del 30 giugno 2009).

L’esito viene, infine, paragonato con altri profili, custoditi in databases (il più importante dei quali è la banca dati nazionale del DNA, regolata dall’art. 7 l. n. 85 del 2009 che però non è ancora entrata in funzione), oppure ottenuti prelevando appositamente materiale organico da un individuo.

Una sola differenza è sufficiente ad escludere che due profili vengano dalla stessa persona.

Se, invece, le sequenze sono sovrapponibili, si può concludere che i due soggetti siano la medesima persona: concettualmente si tratta di una valutazione probabilistica, ma quest’ultima può essere talmente alta da rasentare la certezza.

Se la banca dati non fornisce riscontri positivi, si allarga lo screening secondo la tecnica del familial searching, ossia si va alla ricerca non d’un profilo identico, ma d’una corrispondenza parziale che segnali un vincolo di parentela fra la persona schedata e quella che ha lasciato la traccia.

Incontriamo, qui, la “ricaduta processuale” d’un tratto eminente dell’informazione genetica: essa è in parte condivisa dai membri d’uno stesso nucleo familiare. In ambito giuridico, questa caratteristica è destinata ad aprire problemi vertiginosi: la memorizzazione in banca dati del profilo d’un soggetto implica una sorta d’inserimento “virtuale” dei consaguinei, quand’anche per costoro mancassero i presupposti a cui la legge subordina la schedatura.

Inutile dire che queste informazioni non possono fondare un giudizio di colpevolezza; ma potrebbero consentire, quantomeno, di estromettere un individuo dall’indagine, o per restringere la cerchia dei sospettati ed indirizzare, così, il proseguo dell’investigazione.

Il test del DNA è entrato nel processo, per la prima volta, in una vicenda statunitense del 1987.

Nel nostro codice, si è tardato, invece, a regolare la fattispecie, con gli inconvenienti di questo assetto che si mostrano subito: le conoscenze scientifiche sono cresciute rapidamente e la prova è diventata, presto, affidabile: l’ordinamento non poteva rimanere impassibile.

Ne deriva una stagione travagliata, con la giurisprudenza che tenta di colmare la lacuna in vari modi, sfruttando la disciplina dei mezzi di ricerca della prova, avvallando gli stratagemmi escogitati dagli organi investigativi, valutando come elemento a carico il rifiuto della persona sottoposta all’indagine di concedere un campione biologico.

Una disciplina organica è stata introdotta nel 2009, con la l. n. 85.

È opportuno sottolineare che le disposizioni che governano la fase delle indagini preliminari, inopportunamente trascurate dalla legge che disciplina la prova del DNA, mostrano gravi carenze, in merito al contraddittorio: il difensore può partecipare, ma è difficile che riesca a farlo, perché non ha diritto al preavviso (artt. 356 c.p.p. e 114 disp. att. c.p.p.).

Come si inserisce, in questo contesto, il prelievo del campione genetico?

L’intervento è ritenuto possibile in presenza di due elementi: il delitto per cui si procede deve essere doloso, consumato o tentato, per cui la legge stabilisce la pena all’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni. Ciò non porta gravi problemi, quando gli accertamenti sono disposti in dibattimento, in quanto l’imputazione ha già passato il vaglio dell’udienza preliminare. Nella fase investigativa, invece, il requisito non può essere così inteso: se il gip dovesse limitarsi a prendere atto che la notizia di reato scavalca il limite di pena indicato dalla legge, il pubblico ministero potrebbe gonfiare artificialmente l’addebito ed il controllo del giudice risulterebbe inutile.

Il secondo requisito impone che il prelievo sia assolutamente indispensabile alla prova dei fatti. Ne deriva che, laddove il soggetto cui viene richiesto di sottoporsi al test non acconsenta, l’esame possa essere esperito ugualmente (si parla, allora, di prelievo coattivo) a patto che la coazione costituisca solo “l’ultima spiaggia”: non vi si potrà ricorrere, quando il materiale biologico o il profilo genetico siano reperibili in altri modi.

 Notazioni conclusive

Sia dai fatti di cronaca sia dalle posizioni di diversi “addetti ai lavori” si evince come il test genetico a cui possono, a determinate condizioni di legge, essere sottoposti gli indagati non è infallibile come si crede.

Esso, infatti, porta con sé un esito meramente probabilistico, anche se in grado di lasciare poco spazio alle incertezze.

Inoltre, l’esame in analisi non è in grado di fornire elementi sufficienti, per decretare la colpevolezza o meno del soggetto indagato, ma, al massimo, consente di decidere se vi siano i presupposti o meno per passare dalla fase delle indagini preliminari a quella processuale, ossia se la persona sottoposta all’esame possa essere considerata non più come indagato, bensì come vero e proprio imputato.

Nemmeno la scienza, quindi, è in grado di dare risposte certe al cento per cento.